Dimenticati durante la pandemia, di adolescenti e giovani ci si interessa solo attraverso i fatti di cronaca che li racconta aggressivi, violenti, raggruppati in gang, fragili, facili prede di ciò che appare, ma non è.
Spronati a essere vincenti a scuola e in competizione con tutti gli altri, non sono abituati ad incontrare i limiti.
La cultura del “tutto facile”, nutre sogni iper-ideali al cui confronto si finisce per sentirsi costantemente inadeguati. I sentimenti sono per lo più raccontati, vissuti velocemente come una storia su Instagram, senza il tempo di comprendere cosa si provi davvero.
I giovani sono curati, eppure spesso esprimono la sensazione che nessuno si prenda davvero cura di loro. Raccontano di sentire tante paure: quella di vivere, di deludere, di sentirsi vuoti e inutili. Esposti a esperienze ideali, surreali, perfette, senza un sopracciglio in disordine, con la nuance del rossetto in tinta con l’unghia del mignolo e la maglietta firmata da esporre come codice identitario. Sono immaginati ordinati, ben vestiti, belli e in ambienti creati su misura per questo apparire, sfilare, mostrarsi senza mai farsi vedere davvero. Questa prigione di perfezione, sembra non autorizzarli a essere unici, ma gli impone di apparire perfetti. E tutti siamo alla ricerca dell’immagine perfetta che ci corrisponda, che dica chi dovremmo essere, sacrificando chi siamo davvero.
E il tempo sembra mancare anche per fermarsi e guardare chi sono questi giovani.
Appaiono senza essere veramente visti ed è spesso il loro più grande dolore.
L’identità dell’adolescente stenta a rintracciarsi tra contradditori riconoscimenti, like, follower. E forse proprio la paura di essere invisibili, li spinge ad esasperare l’estetica, il corpo tonico, l’outfit firmato. Si rischia di non dare ascolto a ciò che ciascuno sente e prova dentro se stesso. Dolore e sofferenza sono estromessi in questa cultura del vincente, della performance delle eccellenze.
Eppure gli sportelli d’ascolto e gli studi di psicologia sono colmi di giovani e adulti che hanno bisogno di parlare di tristezza, di senso di inadeguatezza, di paura, vulnerabilità e fragilità… portano l’umanità così com’è, senza filtri, struccata e strana, ricca di emozioni nascoste e di sentimenti profondi non capiti.
E a volte il corpo, così mostrato affascinante e muscoloso, in perfetta forma, diventa il mezzo attraverso cui il dolore muto si esprime e la paura di essere invisibili si tramuta in desiderio di scomparire. Corpi senza nutrimento, bloccati nella crescita, rifiutano tutto ciò che arriva da un mondo considerato cattivo. Il cibo perde la sua valenza di nutrimento e assume il ruolo di espressione della sofferenza… ingurgitata, bulimica, compulsiva, senza equilibrio finché non si trova un modo per riconoscere il dolore. Sul corpo si incidono i segni di un malessere senza parole, strumento per esprimere la paura di deludere e di fallire, temi centrali in questa epoca di aspettative iper ideali che impauriscono, opprimono e soffocano.
Penso si debba tornare a includere dolore e sofferenza nelle nostre vite, allenare la capacità di esprimere le emozioni, tutte, anche quelle meno dicibili, incontrare la propria fragilità e scoprirne la forza, misurarsi con l’unica vera competizione, quella con se stessi. Ricordare che la felicità spesso è una scelta e che ciascuno è portatore di un valore unico che non ha bisogno di essere dimostrato. C’è, dal primo momento in cui apriamo gli occhi per la prima volta in questa vita. È il valore di sé, è la propria naturale identità che va scoperta e amata.
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