Intervento in una classe di Scuola Secondaria di Primo Grado
Una seconda media. Vengo chiamata dalla dirigente scolastica che mi avvisa che qualche giorno prima fuori dalla scuola si sono verificati dei litigi fra i compagni della classe. Contatto il coordinatore di classe che mi spiega che i ragazzi non vogliono parlare dell’accaduto. Da quello che è emerso da alcuni genitori, sembra che un ristretto gruppo di ragazzini abbia minacciato uno o due compagni e che da alcuni mesi abbiano modi offensivi e facciano richieste coercitive.
Apro la porta, saluto, mi presento e scrivo sulla lavagna con caratteri chiari e leggibili l’argomento che desidero trattare insieme a loro oggi: PREPOTENZA.
Inizio con il chiedere a chi sia capitato di subire o di agire prepotenze e se hanno voglia di raccontarle… C’è silenzio. Solitamente non mi faccio dire chi sia strettamente coinvolto nell’accaduto, preferisco entrare in classe senza informazioni e scoprire i ruoli dagli sguardi che si posano via via durante i discorsi.
Per riuscire a coinvolgerli, inizio con il chiarire che non desidero giudicare nessuno e che in fondo a tutti prima o poi è capitato di agire delle prepotenze, magari semplici e poco gravi… Parto proprio dall’idea di agirle che è sempre la parte più difficile da ammettere dentro ciascuno di noi.
Noto un ragazzino con i piedi appoggiati sul sottobanco in modo provocatorio e spavaldo. Non mi guarda, indossa un cappello calato sugli occhi e sottovoce capisco che mi sta prendendo in giro parlando a bassa voce con il compagno di banco che sorride sotto i baffi.
Questi atteggiamenti li conosco molto bene, non mi sorprendono né mi offendono, anzi mi indicano la via…
Mi avvicino e gli chiedo se vuole intervenire ad alta voce così che si sentano chiari i suoi pensieri. Alza il cappello e mi guarda negli occhi, ora il silenzio sembra più denso. Mantengo lo sguardo e capisco che lui è sicuramente uno del gruppo dei prevaricatori. Gli sorrido e ripeto l’invito chiedendo il suo nome. Si muove scomposto, è in evidente imbarazzo e tra i denti, ma facendo in modo che si capisca bene, dice: “Che cazzo vuole questa…”.
E’ proprio la strada giusta e non mollo, tutta la classe è attenta. Gli rispondo in modo cordiale: “Voglio solo conoscere i tuoi pensieri, credo siano importanti in questo momento…”. Lui resta ancora più disorientato, tutta la classe lo vede in difficoltà e questo è già importante perché è l’inizio di un nuovo modo di vedersi e di considerarsi nel gruppo.
Mi risponde arrabbiato: “Io non centro… lo sapevo che alla fine pagavo io…”. Nel frattempo inizia un brusio di sottofondo che mi fa capire che altri sono pronti a parlare.
Si chiama Giuliano e mi spiega che quando succede qualcosa, tutti danno la colpa a lui. Intanto qualcuno ha preso coraggio e interviene: “Mi hai minacciato! Non è forse vero?!” Si è alzato in piedi Luca e sembra davvero molto arrabbiato.
Inizia a delinearsi cosa sia accaduto. Sembra che i modi prepotenti di alcuni siano arrivati a chi la vittima non la vuole fare e tutto è diventato più visibile.
Finalmente parlano, a volte si insultano, ma stanno al loro posto, temono le sanzioni scolastiche, intanto comprendo le possibili vittime: una ragazza timida e riservata ai primi banchi e un ragazzino più basso e magro, ma vivace e pronto a prendere in giro tutti.
Per qualche minuto lascio che la discussione si infiammi, mi serve per capire le dinamiche che si svolgono nella classe: chi si espone, chi delega, chi vuole comandare, chi sta al proprio posto e chi non ci sta…li lascio tirar fuori il più possibile perché è proprio arrivato il momento e so che dopo questo, tutto prenderà un’altra forma. Resto allerta e pronta ad intervenire qualora andassero oltre i limiti.
Mi avvicino alla ragazzina del primo banco e mentre c’è ancora frastuono, sottovoce le chiedo se abbia voglia di dire qualcosa. Lei seria mi guarda e mi fa cenno di no con la testa e subito abbassa gli occhi. Scrivo su un foglio un appuntamento per lei allo Sportello d’Ascolto e glielo porgo. Lei lo legge e se lo mette in tasca. Spero lo utilizzi.
Riprendo la discussione e con molta fatica, cerco di far parlare tutti. Intanto Giuliano scalpita, si muove sulla sedia in continuazione, lo sento sbuffare e forse intuisce che più si chiariscono i comportamenti, meno potere resta a lui. Dopo un’ora di discussione, sembra proprio che tutto ricada sulle sue spalle, anche i suoi alleati si sono tirati indietro e ora resta lui solo ad essere il prevaricatore che ha sempre minacciato tutti.
Entra l’insegnante, tutto il frastuono cessa, avvisa che è stata presa una decisione: saranno presi seri provvedimenti disciplinari. Non poteva essere momento peggiore per Giuliano che, scappa fuori dalla classe in lacrime, non vuole farsi vedere.
Saluto la classe dandoci appuntamento per un altro momento, il lavoro va continuato e mi accordo con il professore. Invito tutti allo sportello d’ascolto e fisso già alcuni appuntamenti che nel frattempo alcuni ragazzi mi richiedono. Chiudo la porta e, in accordo con il docente, attendo io Giuliano fuori dal bagno. Devo comunicargli che è prevista una sospensione e che hanno chiamato i suoi genitori. Aspetto qualche minuto e poi lo vedo uscire. Mi vede e gli faccio segno di avvicinarsi, ci mettiamo in un’aula vuota lì di fianco. E’ abbattuto, guarda a terra, si siede sempre appoggiando i piedi sul sottobanco, vorrebbe mantenere quell’aria da “duro”, ma non è più così convinto. Ora sembra un fiore appassito, anche lo sguardo è spento.
Mi chiede una sigaretta, non rispondo e gli sorrido. Accenna un sorriso anche lui. È il momento in cui posso farmi raccontare la sua vita: secondo figlio, ha vissuto fino all’età di 6 anni con i nonni materni vedendo raramente i genitori, poi il ricongiungimento familiare lo ha costretto a lasciare la nonna che non vede da molto tempo. Capisco che sta parlando di una separazione molto difficile da accettare: la nonna è stata sua madre per i primi anni della sua vita e la separazione è stata vissuta come una violenza. Provo a verbalizzare questa sofferenza e il legame profondo con la nonna. Giuliano piange con le mani appoggiate a coprire parte del volto. In quel momento riesco a scorgere il bambino impaurito e smarrito che a 6 anni ha dovuto separarsi da chi viveva come la sua famiglia. Mi commuove la sua storia e la sua sofferenza.
Restiamo in silenzio, gli passo un fazzoletto. Sento che un po’ di quel dolore se ne sta andando. Mi chiede cosa succederà. Gli dico della sospensione e della convocazione dei genitori e gli propongo un incontro allo Sportello d’Ascolto per lui e i suoi genitori. Mi guarda ancora con gli occhi lucidi e mi dice che il padre non verrà perché non c’è mai…però verrà con la madre. Si alza per andarsene. Gli porgo la mano e lo guardo negli occhi. Mi guarda serio, mi stringe la mano.
Se ne va verso la classe. So che dovrà affrontare un nuovo modo di stare insieme ai suoi compagni e spero riesca a trovare il coraggio di affrontare le sue paure.
Rivedo Giuliano con la madre allo sportello d’ascolto qualche giorno dopo. Parliamo del momento del ricongiungimento, della sofferenza, delle difficoltà, del loro rapporto, del padre assente, della nonna lontana. La madre piange, riconosce gli sbagli e i limiti di una vita difficile anche per lei. Giuliano ascolta e vorrebbe trattenere le lacrime che invece segnano spesso il suo volto. Ascoltare la sofferenza della madre gli consente di trasformare la rabbia e il risentimento in compassione e la abbraccia più volte. Le questioni sono tante e complesse, ma lentamente si sciolgono le tensioni.
Nelle settimane successive allo Sportello accolgo quasi tutti gli alunni della classe, ciascuno porta il proprio vissuto, le difficoltà dello stare insieme, le prevaricazioni, ma anche il silenzio che ha consentito quel clima.
Allo Sportello arriva anche Matilde, la ragazzina vittima delle prepotenze di Giuliano. E’ magra, ha la pelle chiara, i capelli lunghi e scuri che le cadono quasi davanti agli occhi a protezione del suo sguardo che spesso tiene basso.
Le sorrido mentre si siede e le dico che sono contenta di vederla. Resta in silenzio, penso a cosa poter dire per aiutarla a parlare, ma non mi viene niente. Nel silenzio noto però che non c’è imbarazzo, né paura… la osservo e lei ogni tanto mi guarda senza espressione. Vedo che porta al polso un braccialetto colorato, le dico che è molto bello. Lei mi ringrazia. Tiene la voce molto bassa, allora faccio finta di avvicinarmi con l’orecchio come a dire di non aver sentito. Lei sorride. Lentamente e con frasi brevi mi dice che ha sempre fatto molta fatica a parlare, che preferisce ascoltare. Aggiunge che non è una brutta classe e Giuliano non le fa più paura, prima sì, ma credeva facesse paura a tutti perché nessuno diceva niente. Si sente sola perché nel suo silenzio nessuno si avvicina volentieri a lei. Le succede spesso di restare sola. Poi restiamo ancora un po’ in silenzio a guardarci e a sorridere.
So che Matilde oggi ha fatto un grande sforzo, quando ci salutiamo le propongo un altro appuntamento e la rassicuro dicendole che possiamo anche stare in silenzio. Mi ringrazia e sorride.
La guardo allontanarsi, mi sembra più alta e noto che cammina forse un po’ più al centro del corridoio.
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