Ha un sorriso leggero, mi guarda fisso negli occhi poi distoglie lo sguardo e si siede. Tiene le braccia incrociate davanti a sé e mentre parla guarda di lato, fuori dalla finestra.
Non serve che io faccia alcuna domanda, Giovanni sembra arrivato con un discorso già pronto, chissà da quanto tempo.
Ha 17 anni. Dice che da qualche tempo fa strani pensieri, è stato con una ragazza, ma non è andata bene, non riusciva a provare attrazione, aveva poca voglia di vederla e i momenti trascorsi in intimità erano poco soddisfacenti. Ne parla con apparente freddezza, eppure scorgo nel viso tracce di tensione e di imbarazzo.
La fronte imperlata di sudore e le guance rosse, si blocca…
Lo rassicuro: “Non ti preoccupare Giovanni, forse hai qualche dubbio ed è tutto normale. Qua possiamo parlare tranquillamente di qualsiasi cosa e non accade niente di male. Spesso alla tua età possono sorgere domande e ciascuno può fare strani pensieri”.
Lui riprende a parlare lentamente e dice che se lo sapessero i suoi amici non potrebbe più vivere. Appena termina la frase, il silenzio invade tutto lo spazio. Spalle chiuse, sguardo a terra, gomiti appoggiati sulle ginocchia.
Penso di aver compreso il tema che porta dentro di sé e mi fermo lì con lui in quell’inciampo… Gli dico che intanto possiamo parlarne lì tra noi e capire insieme cosa gli accade dentro e per farlo sentire più a suo agio, aggiungo che diversi ragazzi della sua età mi parlano di sessualità. Uso proprio questo termine per fargli vedere che la porta è già aperta, possiamo dialogare senza nessuna paura.
Giovanni mi guarda serio, in silenzio, forse si aspetta che sia io a raccontare, allora gli confermo che le ragazze parlano con maggiore serenità dei loro orientamenti sessuali e delle loro esperienze, mentre i maschi fanno eccessivamente fatica, si vergognano oltre misura. La cultura dominante è difficile da affrontare. Mi fermo e lascio aperto il discorso.
Giovanni è ancora in silenzio, mi guarda e dopo qualche attimo dice: “Se fossi gay o bisessuale?…”. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, è un dolore che sale come l’alta marea e gli invade il petto, la gola, il viso.
Piange Giovanni e io mi commuovo insieme a lui e sento tutta la fatica dell’esistere, di accettare di essere diverso da quello che forse lui si aspettava di sé, diverso dalle aspettative di tutte le persone che lo circondano. E c’è, in fondo, la paura di non valere e di non essere amati per come si è davvero.
Non so come dirgli che ciascuno, prima o poi nella vita, si sente diverso, che le aspettative spesso le deludiamo soprattutto se sono troppo rigide, che essere diversi non è essere sbagliati…
Resto ad ascoltare il suo dolore e lo guardo. Quando si calma e alza lo sguardo, gli sorrido. Sembra aver corso una maratona ed ora, stanco, può sedersi. Mi dice che non sa cosa prova, è confuso. Non pensava di riuscire a dirlo, non ne ha mai parlato con nessuno ed è la prima volta che lo dice a voce alta. Gli confermo che oggi ha fatto una cosa molto importante: parlare di sé con autenticità, esprimere il senso di vergogna e di isolamento che alcune volte possiamo vivere tutti.
La porta è aperta e ora, con delicatezza e coraggio, ci si può accompagnare a scoprire cosa si prova, come si è. Prima di salutarci, trovo il momento per dirglielo: “Ho molta stima di te Giovanni. Essere diversi non significa essere sbagliati e oggi mi hai dato modo di ricordarlo anche a me stessa.” Sorride.
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