Sportello d’ascolto, scuola secondaria di primo grado, scuola media.
Tito ha 13 anni. È arrivato allo sportello d’ascolto dopo che una compagna di classe lo ha “obbligato” a presentarsi insieme a lei. Lidia infatti è esausta delle sue continue battute urticanti, lei ha provato in tutti i modi a dirgli di smetterla, ma lui continua…. non lo sopporta più e glielo grida in faccia! Tito, molto ironico e spesso sorridente, mi guarda impavido.
Il suono della voce di Lidia riecheggia nella stanza e poi restiamo in silenzio tutti e tre. Guardo Tito, mi guarda fisso, sembra impietrito e imbarazzato, qualcosa non va come si aspettava. Non sorride più e non riesce a voltarsi verso Lidia. Attendo qualche secondo. Anche Lidia resta silenziosa.
Chiedo a Tito: “Cosa succede?”.
Bastano queste due parole per vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime.
Lidia si accorge che Tito piange, mi guarda sorpresa, arrossisce come a sentirsi di aver esagerato. La rassicuro e le propongo di tornare in classe facendole segno che ci saremmo riviste in altro momento.
Tito abbassa la testa. Guarda a terra alla ricerca forse di quelle parole così difficili da pronunciare.
Cerco di aiutarlo: “Come va a casa?”.
“Ecco” dice e il suono del suo pianto riempie la stanza. Attendo minuti che sembrano infiniti e nel frattempo mi commuovo. Sto lì con lui in quella tristezza.
Ci siamo già conosciuti l’anno precedente, quando ho svolto degli interventi in classe. Una classe particolare la loro, quella di Lidia e Tito: in 16 e con solo un ragazzo di origine italiana. Una classe considerata da tutti “difficile”, una complessità per me interessante. Oggi una classe maturata per merito dell’impegno di tutti, soprattutto quello dei ragazzi con la loro voglia di stare insieme e di sentirsi uniti.
Quando vedo che le lacrime diminuiscono ed entrambi ci asciughiamo il viso, cerco dentro di me delle parole che possano aiutarlo a dire ciò che prova e a raccontare il suo malessere: “Adesso che hai fatto piangere anche me, dimmi almeno perché stiamo piangendo…”.
Tito torna a guardarmi con gli occhi rossi ed una espressione un po’ seria e un po’ sollevata. Da quando il padre e la madre si sono separati non sa più come si sente dentro, a volte c’è un vuoto e altre volte prova molta rabbia. La madre è spesso fuori casa per il lavoro e il padre lo sente poco. Tito è figlio unico e trascorre molto tempo solo.
A scuola sente che tutti da lui si aspettano solo scherzi e allora fa quello che ha sempre fatto, anche se dentro non prova più contentezza.
Lidia è un’amica e forse anche qualcosa di più… non pensava che i suoi scherzi fossero diventati così insostenibili. È dispiaciuto che lei sia così arrabbiata e non sa come comportarsi.
Il colloquio prosegue su questi temi.
Penso che Tito non riesca a considerare la sua tristezza, la sua rabbia e il senso di vuoto. Oggi ne ha parlato e già un passaggio è stato fatto. Al termine riprendo il discorso: “Mi sembra importante che oggi tu abbia parlato delle tue emozioni e abbia espresso la tua tristezza. Possiamo parlarne ancora.”
E’ più sollevato quando esce dalla stanza e lo vedo nel corridoio che incontra un amico che gli chiede: “…Tito, tu vai dalla psicologa?”.
Lui risponde: “Perché tu no?” e l’amico risponde: “No”.
Allora gli si avvicina con fare amichevole, gli mette una mano sulla spalla e gli dice: “Si vede…” e ride leggero.
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